23 Apr 2023
category: luoghi , narrazione .

Storia di una pieve tra memoria e trasformazione: San Pancrazio

Quest’articolo non potrebbe esistere senza il lavoro svolto da Angiolo Caselli, Emilio Polverini e Teresa Gori che hanno dedicato il loro tempo a raccogliere notizie sulla pieve di San Pancrazio. Teresa ne ha fatto un progetto di ricerca universitaria, Angiolo ha cercato di valorizzare la storia dell’edificio con aperture e visite guidate, Emilio ha legato la propria storia familiare al luogo. L’heritage è anche questo, intreccio di storie, di vite, di documenti; di narrazioni che nel tempo si costruiscono e scompaiono e vengono sostituite da altre storie.

La vicenda della pieve di San Pancrazio, posta non lontano dalla frazione del Neri ne è un esempio. La zona nella quale si erge, sul versante dei monti del Chianti che guarda il Valdarno è un’area caratterizzata da una intensa stratificazione di cultura e storia. Che la presenza dell’uomo qui fosse attestata fin da tempi lontani lo confermano i toponimi e gli idronimi. Più tardi, in epoca medioevale anche in quest’area si insediarono castelli e pievi, proprio sul percorso pedemontano e lungo quelli secondari che risalivano il crinale. Tutt’oggi rimangono evidenti i caratteri di questa struttura finemente articolata e ricca di insediamenti anche se alcuni nuclei sono andati perduti a causa dell’escavazione mineraria della lignite.

La Pieve di San Pancrazio, posta a 391 metri sul livello del mare, è collocata a pochi passi dall’abitato di San Pancrazio. Si ipotizza la sua fondazione a cavallo tra l’alto e il basso medioevo, poco dopo il 1000. Emanuele Repetti la descrive così fra il 1832 e il 1845: antica pieve, dove fu costruito un castelletto da lungo tempo riadattato a villa padronale. Risiede in una piaggia sotto la cresta dei monti che separano il Chianti dal Valdarno Superiore, alle sorgenti del borro di Cerboli. Plebs, ovvero un edificio di culto in grado di gestire ed amministrare un territorio e degli abitanti. Il termine ha tre significati correlati: una comunità di battezzati, un edificio di culto provvisto di fonte battesimale, un distretto di pertinenza. La pieve plebana è così la prima chiesa delle campagne costruita dal popolo cristiano con fede e devozione. La Pieve di San Pancrazio che compare citata in un diploma del IX secolo assume ben presto grande importanza proprio per i numerosi lasciti e donazioni; una chiesa matrice i cui possedimenti sembrano arrivare da una donazione del 30 gennaio 1053, quando Alberto di Rudolfo, detto Gotulo, concede case, vigne, terreni alla Pieve. Nel 1260, nel libro di Montaperti, la nostra Pieve viene citata con toponimo di Avena, molto simile ad “Avane”. In questo secolo – come ricordato poi nel Decimaro fiesolano del 1301 – la Pieve ha sotto di sé numerose chiese del territorio: San Donato a Castelnuovo, San Pietro a Massa, San Michele alle Gole (oggi noto come San Michele in Colle), Santa Lucia di Cafaggio e Sant’Andrea a Montetermini, edifici di culto oggi non più esistenti, arrivando ad estendersi fino a Vacchereccia. La Pieve di San Pancrazio rimase per molti secoli giuspatronato dei Gherardini del ramo dei signori da Montecorboli. Nel 1524, alla morte del Pievano Piero Antonio di Ugolino Gherardini si ebbe l’investitura di Lorenzo Galeotto de’ Medici e nel 1568 gli successe nuovamente un Gherardini, Jacopo di Vincenzo. Il popolo di San Pancrazio non formò mai un comune proprio e nel censimento del 1551 scopriamo che dipendono dalla pieve 828 persone.

Lo stile architettonico della pieve di San Pancrazio è pre-romanico, almeno per ciò che riguarda la cripta, e romanico per il resto del corpo dell’edificio; ha una sola navata, due absidi e un campanile e probabilmente ha mantenuto questo aspetto fino al Seicento, poi diviene altro da sé. Fra il 1693 e il 1698 il pievano Don GiovanBattista Bertozzi decise di realizzare degli interventi che mutarono completamente l’aspetto dell’edificio trasformando la chiesa in un luogo di culto di stile barocco. Questa scelta non modificò solo l’aspetto esteriore e interno dell’edificio ma ne cambiò per secoli la storia stessa. Alcuni parrocchiani ricordano ancora come alla metà del ‘900 la pieve non fosse considerata un edificio molto antico; era ricca di affreschi, quadri e decorazioni e aveva lo spazio dell’altare maggiore circoscritto da due colonne. Il Bertozzi dunque aveva compiuto un’operazione interessante modificando il senso narrativo dell’edificio per secoli. Inoltre pare che sia stato proprio l’ingegno del pievano a cambiare la canonica attigua alla chiesa, intonacando completamente le pareti, e ad alzare il campanile sul vecchio basamento nel 1693. Anche la facciata della Pieve mutò completamente e sull’architrave del portale di ingresso il Bertozzi lasciò testimonianza di sé trascrivendo il suo nome. Sotto la sua giurisdizione, mentre la cripta venne interrata e la chiesa si dotò di 3 altari e una cantoria barocca, si eclissò lentamente la memoria dell’antica origine del luogo.

Nel Settecento il patronato della chiesa di San Pancrazio passò alla signora Margherita Lenzoni entrata in casa Strozzi. Arrivò un nuovo pievano, Alessandro Renzi. Nel 1758 si mise all’opera ed iniziò a trascrivere le storie dell’edificio rinvenute ed inventariate confusamente nel “Libro Vecchio”. Così nel Libro della Memoria del 20 luglio del 1758 sappiamo che c’erano numerosi poderi sotto il controllo della pieve: quelli di Villa, Campo alla Pietra, Secciano, Corneto, Casa al Monte, Casignano, Solatio, Berlingozzi e Stentatoio. Ognuno di questi era dotato di una casa per il lavoratore, di solito composta da camere, cucina e stalle. In alcune c’erano anche il forno, il seccatoio, tinaie e stanzini aggiuntivi. La coltivazione appare abbastanza uniforme: terre vitate, ulivate e fruttate. Poi c’erano anche gli appezzamenti vicini al bosco con marroneti, querceti e castagneti e non mancavano scope e ginestre. Nel Libro della Memoria il Renzi si sofferma anche sulla descrizione dettagliata di due poderi: quello della Seccianese, a Vacchereccia e dello Stentatoio. Pare infatti che in passato ci fosse una particolare usanza legata al podere Seccianese che era stata introdotta dal pievano Bertozzi: in specifiche occasioni si dava un poca di refezione a tutti quelli che venivano ad accompagnare la croce a San Pancrazio, di uova, pane e bere. Il podere Stentatoio era invece un’acquisizione abbastanza recente per la Pieve e risultava in un atto del 23 maggio 1686 redatto da Marco Antonio Finsechi e da Lisabetta sua moglie nel quale si concedevano alla chiesa 180 scudi e il podere intero. In cambio si chiedeva che dopo la morte dei coniugi si continuasse a celebrare la messa in loro onore e che una particolare si tenesse una volta l’anno per ricordare la Madonna del Carmine, alla quale era dedicato l’altare della chiesa. Nel 1699 altri poderi arrivarono da Stentatoio donati da Jacopo Vecchi. Ma il lavoro del pievano Renzi andò ben oltre e dobbiamo ringraziare tutta la sua precisione se oggi siamo in grado di conoscere la storia di un crollo avvenuto il 21 settembre 1757 quando all’ora del Vespro rovinò tutto il guscio esteriore della tribuna corale e non vi restò al di dentro che poche braccia sottili di muro che pareva impossibile non fosse rovinato. Il 12 gennaio 1759 il Renzi redisse anche l’inventario degli oggetti posseduti dalla Pieve: all’epoca c’erano 3 altari, un baldacchino di tela, una pisside con piviale, delle coppe d’argento, un ostensorio dorato, un vasetto per l’olio santo, delle bande colorate ma assai lacere, un ciborio tarlato, un vasetto d’alabastro rotto e poi candelieri, cassapanche, veli da spalle, pianete ricamate, messali, tavoli, sedie, armadi. Nella cucina della canonica non mancavano padelle, mezzine, spiedi e piatti. Nell’edificio c’era la stanza della serva con il suo letto mentre i locali attigui erano adibiti a fattoio, tinaia, orciaia. Qui le botti erano tante e di dimensioni diverse. Però nell’elenco troviamo anche opere d’arte, opere delle quali abbiamo perso le tracce nei secoli successivi: un quadro posto presso l’altare della Madonna del Carmine, fatto ad olio e raffigurante la Vergine con Gesù Bambino, San Simone, San Cirillo, San Alessandrino e Santa Teresa; all’altare dedicato a San Pancrazio un quadro raffigurante il santo assieme ad altri Santi. Al Battistero una pittura a fresco rappresentante San Giovanni Battista e una piccola scultura raffigurante il Cristo bambino fasciato, che veniva da Lucca.

Nel 1781 alla Pieve di San Pancrazio troviamo un nuovo pievano, Camillo Sacchetti. Anche lui riprese in mano il lavoro fatto da Alessandro Renzi, aggiornando l’inventario. Il pievano Sacchetti aveva spirito di inventiva, come i predecessori e come era già avvenuto con il Bertozzi, si mise subito all’opera per portare alcuni cambiamenti alla Pieve. In realtà il suo lavoro si concentrò molto sulla zona del campanile. Nel 1808 decise di acquistare una campana, la più antica della chiesa, quella che guardava Secciano. Una storia misteriosa e avvincente, un po’ come tutta la storia di questa antica Pieve. Si narra infatti che la campana fosse stata fatta fare da Andrea di Michele di Francesco di Cione, conosciuto da tutti come il Verrocchio. Costruita per una badia importante, la campana fu acquistata dal Sacchetti e portata a San Pancrazio per dotare il campanile di 3 campane, ognuna orientata verso i luoghi ritenuti importanti per la Pieve stessa. La campana non ha avuto lunga vita e in seguito alla rottura del 1885 fu fusa nuovamente da un nuovo pievano Luigi Viligiardi. Anche sotto la sua guida i lavori proseguirono: un nuovo pievano, nuove modifiche. Così furono realizzati nel presbiterio 2 affreschi raffiguranti San Pietro e San Paolo.

Le vicende degli enti ecclesiastici e dei loro possedimenti si intrecciarono presto con la storia delle miniere di lignite e anche una parte dei possedimenti della Pieve di San Pancrazio faranno parte di questa storia. Nel 1910 il rettore della chiesa locò a Giuseppe Fineschi e Giuseppe Ferretti alcuni terreni, stabilendo modalità e prezzi per il canone di affitto. I litigi non mancarono tanto che la questione finì di fronte all’ingegnere Capo delle Miniere di Firenze che decise di applicare un affitto a £ 0.45 per tonnellata di lignite umida estratta e una cauzione ad uso della parrocchia per eventuali problemi che si fossero verificati; un affitto di dieci anni e fino ad esaurimento del banco. La prima metà del secolo passò veloce e si arrivò presto al 1944. Dopo la guerra nuove vicende proiettano la Pieve di San Pancrazio in un’altra dimensione. Nella piccola frazione del Neri era arrivato un nuovo parroco, Don Romano Spagnoli. Quello che si stava sviluppando all’epoca nell’area mineraria avrebbe portato ad un cambiamento epocale della morfologia della zona sulla quale dominava la nostra pieve. Don Romano Spagnoli dal 1955 al 1964 si trovò così ad affrontare un momento particolare per la storia della comunità e del territorio. Si sapeva che c’erano due miniere, quelle del Casino e quella del Basi; quella di San Pancrazio, più vecchia, stava poco lontano. Al Basi e al Ronco c’erano anche le case e una piccola chiesa. Don Narciso Polvani aveva fatto costruire su un terreno della famiglia una cappella per il culto e una palazzina, come canonica. Si era a conoscenza anche del nuovo piano di escavazione della lignite, quello a cielo aperto. Don Spagnoli si trovò in mezzo a queste prime trasformazioni. Sapeva che l’area più in basso, quella vicina al Neri, sarebbe stata spazzata via dalle “nuove” miniere e sapeva anche che si sarebbe ricostruito. Pieno di entusiasmo, chiese di sviluppare un nuovo centro aggregativo con un asilo e un cinema, tutti più vicini al Neri che sarebbe divenuto in poco tempo il “nuovo centro”; sapeva anche che la chiesa di San Pancrazio avrebbe perso i suoi fedeli, dopo l’abbandono delle campagne e le trasformazioni in corso. Ma aveva scoperto quasi per caso, che l’area dove sorgeva la Pieve barocca aveva origini più antiche. Per questo era convinto che la storia dell’edificio non poteva fermarsi solo al 1600. L’ 11 marzo del 1957 una parte della calotta affrescata posta sopra l’altare maggiore cadde all’improvviso. Don Spagnoli chiamò la Soprintendenza per verificare il danno. L’episodio però spinse il parroco a indagare ulteriormente, sempre più convinto dell’antichità dell’edificio. A proprie spese decise di far demolire una vecchia casa e la sede della compagnia che si trovavano addossati al corpo della chiesa. Furono scoperte così delle finestrelle e ci si accorse che il terreno aveva una strana forma.Tutto ciò convinse ancor di più il parroco a procedere nella ricerca, un lavoro che porterà ad una scoperta sorprendente. Le finestrelle che erano venute alla luce casualmente erano delle feritoie di un’antica chiesa romanica, della quale si era persa memoria. Don Spagnoli continuò la sua ricerca e sempre per caso vennero fuori dei vani, proprio sotto l’altare maggiore. Alcuni erano pieni di terra, altri si sapeva che erano stati usati come cantine. La scoperta fu tale che portò la storia della chiesa alla ribalta della cronaca. Mentre Alfredo Bennati, caporedattore della sede aretina della Nazione, raccontava la vicenda in un lungo e bell’articolo del 13 giugno 1957, la Soprintendenza di Arezzo intervenne iniziando i lavori di consolidamento degli affreschi caduti. Fu durante questi primi lavori che si iniziò pian piano anche a liberare l’antica cripta: essa si mostrò subito una soluzione rara per una pieve rustica, con capitelli cubici e volta a crociera. Dietro il muro di fondo ci si accorse che c’era un altro vano, absidato e poi un vano più piccolo ancora, sulla sinistra, che delimitava lo spazio dove c’era il fonte battesimale ottagonale ad immersione. I lavori intrapresi negli anni permisero di abbassare di almeno un metro il pavimento della chiesa, recuperando il livello originario. Gli ornamenti barocchi sparirono e la chiesa apparve con una nuova fisionomia, quella che l’aveva contraddistinta nel momento della sua fondazione. I soldi per i lavori arrivarono da più parti: la popolazione; il Ministero per i Beni Culturali e dal Colonnello Franciolini che donò una cospicua somma. Fu lo stesso Don Spagnoli a redigere un pro memoria per i parroci successivi nel quale si riportavano questi dettagli e soprattutto perché fosse affisso all’altare maggiore una targa che ricordasse la figura del colonnello. Si scoprirono tante altre cose in quegli anni: parte del materiale dell’antica area della cripta era stato usato per costruire un muro di sostegno per la zona della cantina. Anche la facciata tornò alle sue origini e i morti sepolti nel tempo sotto il pavimento della chiesa barocca furono trasferiti un metro più in basso, sotto il vecchio pavimento appena riscoperto. Un nuovo altare venne posto nella chiesa, anch’esso dono del colonnello Franciolini, mentre di quello barocco, rimosso durante le fasi di restauro rimase solo l’iscrizione Altare in memoriam S. Panciatii Mart. Cammillus Sacchetti […], MDCCLXXXXVI.

Mentre l’antica pieve sta ritrovando il suo aspetto, il mutamento economico della zona innescò nuovi processi sociali e urbanistici: si doveva realizzare una nuova chiesa al Neri; i fedeli calavano; le miniere avanzavano… L’importanza del ritrovamento dell’originaria struttura architettonica della Pieve di San Pancrazio trasformò ancora una volta la memoria storica, cancellando in molti il ricordo della chiesa barocca; una memoria che rimaneva invece presente negli edifici attigui affrescati con grottesche, trompe l’oeil, vedute marine e l’allegoria di Cerere, che stringe in mano il mazzo di spighe di grano. Oggi la pieve di San Pancrazio ha caratteri stilistici semplici: la facciata, a capanna, ha solo una piccola finestra che si apre proprio sopra la porta di ingresso alla quale si accede con un po’ di gradini; ci sono due absidi; ancora qua e là compaiono i resti di antiche iscrizioni che ricordano le vicende dell’edificio. All’interno, nei pressi dell’altare, sul piano rialzato, c’è la rappresentazione della Madonna tra San Pancrazio e San Lorenzo, il santo legato a Casignano mentre il pulpito si mostra collocato in modo inusuale allo sguardo dei fedeli e dei visitatori: sta troppo in alto per il pavimento della navata centrale e troppo distante dal piano dove è posto l’altare…

(P. Bertoncini)


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