17 Mag 2021
category: miniere ed energia , narrazione .

La selenite

Una nuova storia dall’ingegnere Mario Zaniboni che ci porta alla scoperta della “selenite” delle miniere di Cavriglia….

“Un gesso cristallino molto comune in natura è la selenite, chimicamente un solfato di calcio biidrato (CaSO4.2H2O) che, in certe condizioni di pressione, si deposita a strati. La sua formazione si compie a squame, scaglie, schegge – chiamiamole come vogliamo – che hanno la caratteristica di essere traslucide, in grado di lasciare passare parzialmente la luce. Per questa caratteristica, la selenite fu ampiamente utilizzata in Grecia a formare lastre da collocare nelle aperture dei muri per proteggere l’interno, ma consentendo di ricevere una certa luce assimilabile a quella della luna; infatti, il nome deriva da quello del satellite terrestre, chiamato appunto Selene dai Greci; da ciò deriva la nostra denominazione di “pietra di luna”. Anche i Romani ne fecero grande uso e la chiamarono lapis specularis. Che fosse ben nota a quei tempi – si è nel primo secolo dopo Cristo – lo dimostra Plinio che, nella sua Naturalis Historia, ne fa una lunga trattazione dopo aver visitato le cave spagnole.
E’ diffusa in tutto il mondo, ma ciò che interessa noi è l’Italia. E’ particolarmente diffusa nei territori dell’Emilia Romagna. Importanti i giacimenti di Reggio Emilia e di Bologna, nelle colline verso sud, oltre che quelli del Parco Regionale della Vena del Gesso Romagnolo, compreso fra Imola e Faenza. Il paesaggio attorno a Bologna è dominato da questo minerale, che ha partecipato alla formazione di vere e proprie colline dalle quali, fin dall’antichità, lo si estraeva per soddisfare le esigenze ornamentali della città, più che costruttive, dal momento che di un materiale tenero si tratta.
Talora i singoli elementi costituiscono un raggruppamento di cristalli che, cresciuti attaccati a una roccia, si sviluppano insieme a formare una specie di raggiera; sicché, si hanno strati di roccia sormontati da tante piccole punte semitrasparenti, che si presentano un po’ come le sommità dei muri quando, non volendo che siano scavalcati da intrusi indesiderati, le si proteggono con schegge di vetro, infilate nel cemento fresco.
Si dirà: dove vuole arrivare questo discorso? Ecco da dove viene e com’è giunto a casa mia, e tuttora fa bella mostra di sé nel mio studio, un magnifico esemplare di selenite.
Quando ero ancora studente, andai a far pratica nella miniera di lignite di Castelnuovo dei Sabbioni, presso San Giovanni Valdarno in provincia di Arezzo, prima della laurea in Ingegneria Mineraria.
La durata della mia permanenza era prevista per due settimane, come veramente fu, durante le quali si doveva cercare di vedere e capire tutto, e sicuramente non era poco. La sfruttai al massimo questa scuola di vita e feci bene, perché poi, alla fine, la mia tesi fu proprio puntata su quanto vi avveniva, in particolar modo sul controllo delle acque meteoriche nell’area della miniera e nei dintorni, e successivamente mi fu di guida quando mi trovai in prima persona a prendere le decisioni per altri.
E, ovviamente, per vedere tutto, ci si avvicinava a tutti, per saggiare le varie forme di attività, che un’azienda del genere implica, e per informarsi sui loro funzionamenti.
Fra le varie conoscenze ci fu un caposquadra di mezz’età, di cui non ricordo il nome, particolarmente simpatico e inoltre ferrarese come me – e certo questo non guastava – che, avendo i suoi minatori dispersi per tutta la miniera, si spostava da una zona di lavoro a un’altra con la sua mitica Moto Guzzi 250 Airone, con motore monocilindrico, com’era di prassi allora; era una moto che noi ragazzi adoravamo e della quale, sorridendo, dicevamo “Senti? Tom, tom, tom,…fa uno scoppio a ogni paracarro”, per intendere che ogni scoppio era molto distanziato da quello successivo. Ci ricordava il motore Landini a testa calda, cioè quel motore che, per avviarlo, bisognava prima scaldargli la testa, altrimenti non partiva; e anche lui…tom, tom, tom,…colpi distanziati, distinguibili benissimo, come quelli di un metronomo. La sua moto era di una comodità estrema, giacché gli consentiva di muoversi ovunque, anche laddove i passaggi erano ridotti e parzialmente occupati dai vegetali che crescevano e invadevano un po’ dappertutto.
Entrai nelle sue simpatie e diverse volte mi portò con sé: così, mi fu possibile visitare le officine di riparazione e manutenzione dei vari mezzi, sicuramente di quelli meno importanti (gli escavatori a catene e tazze usati per togliere la copertura di argilla e per scoprire il giacimento di lignite, gli spanditori impiegati per organizzare il movimento dello sterile e sistemarlo fuori dal cantiere, gli escavatori a ruota utilizzati per coltivare la lignite, erano continuamente soggetti in successione alla normale manutenzione, ma restando in sito); fra l’altro potei vedere dove si allestivano quei nastri trasportatori, che formavamo una lunghissima rete di collegamento suddivisa in due settori: il primo congiungeva gli escavatori a catene e tazze agli spanditori, mentre il secondo alimentava con la lignite le insaziabili caldaie, garantendo il regolare funzionamento della centrale elettrica dell’ENEL; potei entrare un po’ dappertutto insomma, e mi fu possibile vedere, se non proprio tutto, sicuramente ciò che era maggiormente interessante per la mia formazione professionale.
Un giorno, mi fermai a raccogliere un pezzo di roccia che subito riconobbi come una selce, di natura prevalentemente silicea (da poco avevo sostenuto l’esame di Geologia e di Riconoscimento delle Rocce), e mi chiesi cosa ci facesse là, nel dominio delle argille, in parte normali e in parte cotte dai continui incendi spontanei, che si incontrano nei giacimenti di sostanze carboniose. Il Ferrarese mi guardò e mi chiese se, come futuro ingegnere minerario, oltre alla professione, fossi pure un amante delle pietre e se le raccogliessi volentieri. I miei occhi s’illuminarono, giacché da sempre ho amato la natura e i minerali – insieme con i pesci d’acquario – erano una mia passione.
In effetti, quando fui licenziato dal liceo scientifico e stavo per iscrivermi all’Università di Ferrara, ebbi uno scambio d’idee con mio padre. Lui mi chiese, dove desiderassi iscrivermi. Alla mia risposta che il mio desiderio era di puntare su Scienze Naturali, per specializzarmi poi in Ittiologia (sapevo che all’Università di Trieste era in atto la possibilità di studiare direttamente su una nave la fauna ittica soprattutto dell’Adriatico), egli rimase deluso. Mi disse che, secondo lui, poiché la famiglia aveva fatto tanti sacrifici ed era disposta a continuare a farli ancora, sarebbe stato meglio se fossi diventato ingegnere (non lo disse, ma sono certo che riteneva che la professione d’ingegnere fosse più redditizia che non quella di ricercatore; forse non aveva tutti i torti). Così, giungemmo a un compromesso: sarei diventato ingegnere, ma nella specializzazione che fosse maggiormente vicina alla natura, perciò minerario.
Pertanto,… eccomi a Castelnuovo dei Sabbioni.
Il Ferrarese mi disse che fra i minerali che si potevano trovare in quelle zone erano dei magnifici cristalli di gesso. Pertanto, mi disse che saremmo potuti andare dove ne aveva visto uno. “Perché non l’ha preso?” “ Non mi piacciano molto i minerali e poi confesso che non avevo voglia di scavare”.
Un pomeriggio, stavo mettendo in ordine i miei appunti a una scrivania che gentilmente era stata messa a mia disposizione, e lui arrivò e mi disse che, se fossi stato d’accordo, era giunto il momento per andare a scavare una bella selenite. Salimmo sulla Guzzi e ci addentrammo in un bosco oltre il confine della miniera; a un certo punto si fermò, scese dalla moto, prese un grosso cacciavite dal contenitore degli attrezzi e me lo diede. Prendemmo un mini sentiero e, a un certo punto, lui lo lasciò, percorrendo pochi passi. “Eccolo”, mi disse laconicamente. Si vedeva ben poco, ma scavando, piano piano emerse una forma che ricordava vagamente un riccio, finché, dopo aver lungamente scavato, la tirai fuori dal suolo, attentamente per non perdere dei cristalli. La sorpresa fu enorme, giacché la forma era quella della palla ovale del rugby, lunga sui 25 cm e con il diametro sui 13 cm, intera, non mancava nulla e, seminascosti dal fango secco che riempiva i vuoti, si evidenziavano i raggi. Quando giunsi in ufficio, lo portai in bagno e delicatamente sotto il rubinetto, con l’aiuto di un coltellino, lo pulii perfettamente, non insistendo troppo per non far perdere ai cristalli – si ripete molto teneri – l’originale lucentezza e la trasparenza.
Oggi, alla distanza di tanti anni, seduto alla mia scrivania, con affetto lo guardo accoccolato presso grossi libri tecnici, e lui, con il riflesso variegato delle facce dei suoi cristalli, sembra ammiccare: “Grazie a te, ho evitato il rischio di finire miseramente in una discarica o in un altro luogo poco piacevole. Tu mi curi e mi coccoli e io sto bene con te. Siamo amici da tanti anni, siamo sempre stati bene insieme: è bello se continuiamo così!”

 


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